La pedana rialzata davanti al palazzo è il cosiddetto arengario o aringhiera, una zona che prende il nome dalla “ringhiera” che un tempo lo recintava e che fu eliminata durante i restauri ottocenteschi di Giuseppe Del Rosso. La scalinata stessa girava anche sul lato sinistro, ma venne tagliata con gli interventi rinascimentali. Da questo luogo i priori assistevano alle cerimonie cittadine sulla piazza.
Durante il governo del Duca d’Atene (1342-1343) l’aringhiera venne ulteriormente difesa da due antiporte e altri elementi. Fin dal Quattrocento venne decorato da sculture che, se non sostituite da copie o leggermente spostate, vi si possono ancora ammirare. Le più antiche sono il Marzocco e la Giuditta e Oloferne (1455-60 circa), entrambe opere di Donatello, sostituite da copie per la loro preziosità (il Marzocco è conservato al Bargello, la Giuditta dentro il palazzo). Queste statue un tempo si trovavano più avanti sulla piazza. Il David di Michelangelo marcò l’ingresso dal 1504, anno del suo completamento, fino al 1873 quando venne spostato all’Accademia. Una copia è al suo posto dal 1910, fiancheggiato dall’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli, scultore che venne molto criticato per la sua “sfrontatezza” ad accostare una sua opera al capolavoro michelangiolesco. Davanti agli stipiti del portale si trovano i due Termini marmorei, quello maschile di Vincenzo de’ Rossi e quello femminile di Baccio Bandinelli che riprendono una tipologia della statuaria classica: essi in antico sostenevano una catena che serviva a sbarrare l’ingresso. Sopra il portale principale campeggia frontespizio decorativo in marmo datato 1528, con il monogramma raggiato di Cristo Re. Al centro, affiancato da due leoni, c’è il trigramma di Cristo, circondato dalla scritta Rex Regum et Dominus Dominantium (Gesù Cristo, Re dei Re e Signore dei Signori). Questa iscrizione, fatta mettere dal gonfaloniere Niccolò Capponi nel 1551, risale al tempo di Cosimo I e sostituiva l’iscrizione precedente ispirata da Savonarola: anche se non tutte le fonti sono concordi circa l’antica trascrizione, doveva suonare qualcosa come Iesus Christus rex florentini populi S.P. decreto electus, intendendo cioè che Cristo era il sovrano della città e che (sottinteso) nessuno avrebbe mai osato “spodestare” il Cristo prendendo il comando di Firenze. Cosimo I la fece sottilmente sostituire con quella presenza, indicando Cristo sì Re, ma Re dei re e Signore dei signori. Un’altra targa in bronzo ricorda il plebiscito del 15 marzo 1860 che permise l’unione della Toscana al Regno d’Italia.